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Sul “tetto” del debito

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Questa primavera gli USA hanno raggiunto il tetto legale del debito pubblico di 14.300 miliardi di dollari oltre il quale non è più possibile chiedere prestiti.  Il confronto tra repubblicani e democratici per trovare un’intesa sulla riduzione del debito è stata una battaglia all’ultima ora che ha tuttavia portato a un accordo entro il termine stabilito del 2 agosto. Alla base di questa spaccatura vi sono due diversi approcci alla risoluzione del problema. I repubblicani vittime della loro frangia più estrema, il Tea Party, chiedevano drastici tagli alla spesa pubblica evitando l’aumento delle tasse mentre i democratici volevano un innalzamento del tetto del debito anche attraverso un’eventuale revisione della politica fiscale. Le maggiori difficoltà nella trattativa tra le parti si sono riscontrate proprio sulla questione delle tasse, particolarmente cara ai repubblicani e al Tea Party. Il primo agosto finalmente si è giunti a un ’compromesso’ evitando così per un soffio l’insolvenza.

 

Nel 1917, con il Second Liberty Bond Act, fu istituito il tetto del debito che conferiva al governo federale maggiore autonomia dal Congresso, al quale in precedenza doveva rivolgersi ogniqualvolta volesse vendere il suo debito pubblico. Da allora il tetto del debito è stato rivisto e innalzato molte altre volte ed è quello a cui aspirava lo stesso Obama, quando questa primavera si è raggiunto il tetto stabilito di 14.300 miliardi di dollari. Il debito pubblico statunitense è in parte eredità dell’amministrazione Bush e in parte frutto di una politica promossa dall’amministrazione Obama volta a stimolare la ripresa economica. Oggi la questione del debito pubblico si è trasformata in una vera e propria battaglia politica tra repubblicani e democratici, tra l’ala più estrema del partito repubblicano e quella più moderata, nonché tra Obama e il partito democratico.

 

Strategie di non politica

Anche in passato il problema del tetto del debito è stato utilizzato dai partiti oppositori per ottenere concessioni dall’amministrazione, ma non si era mai arrivati a questo punto. Ruolo chiave in questa battaglia è stato giocato dal Tea Party, i cui membri sono stati definiti da alcuni oppositori “Talebani” della politica nordamericana. La purezza dei loro ideali e la determinazione nel difenderli ha portato il Paese sull’orlo del precipizio. I membri del Tea Party descrivono gli USA come “spendaccioni” e un continuo aumento di deficit per loro significherebbe più semplicemente limitare la sovranità e l’indipendenza dello stato, lasciando il debito in mano a creditori stranieri, in primis la Cina.

L’etimologia del termine ‘politica’ deriva dal greco (politikòs) e significa letteralmente “amministrazione della cosa pubblica”: proprio ciò che non è stata in grado di fare la classe politica nordamericana in questa occasione. Si è preferito lasciare il Paese per giorni con il fiato sospeso tirando più possibile la corda a proprio favore e rischiando l’insolvenza piuttosto che lavorare responsabilmente all’unica soluzione possibile. Ovviamente questo atteggiamento non poteva non avere ripercussioni sul mercato azionario che registra una delle sue settimane più nere, nonostante l’accordo raggiunto. La Cina si è mostrata scettica riguardo al nuovo accordo ed ha dichiarato che continuerà a diversificare il suo portafoglio azionario, in modo da evitare i rischi dell’attuale incertezza sui mercati. Le parole di Obama risuonano più che mai adatte in questa occasione: il declassamento infatti, adottando i criteri delle agenzie di rating, non dovrebbe essere del debito pubblico nordamericano, ma bensì della sua irresponsabile classe politica.

La strategia repubblicana sulla questione del debito mirava innanzitutto a colpire Obama, candidato alle prossime elezioni presidenziali, ma il gioco è sfuggito un po’ di mano persino ai repubblicani. Infatti non sono mancati imbarazzi all’interno del partito quando lo scorso giovedì il Tea Party votava contro il piano di Bohner alla Camera.

Il compromesso

Compromesso’ è una parola difficile da digerire soprattutto per i membri del Tea Party che, tuttavia, sulla questione del debito pubblico hanno incassato un importante successo. Sono riusciti infatti a evitare un aumento delle tasse e, seppur si è acconsentito ad un innalzamento del tetto del debito, tale innalzamento è stato accompagnato da un altrettanto consistente taglio alla spesa. Senza contare il probabile pareggio di bilancio previsto entro i prossimi 10 anni. I tagli previsti sono di mille miliardi di dollari e inoltre l’istituzione di un’apposita commissione congressuale bipartisan si occuperà di ridurre la spesa di altri 1.500 miliardi di dollari. Qualora i tagli non venissero approvati entro fine anno, scatteranno automatiche decurtazioni per il 50% alle spese per la difesa e per il 50% alle spese sociali. Il primo è un tema particolarmente caro ai repubblicani, mentre il secondo lo è per i democratici, questo perché si è voluto incentivare il raggiungimento di un accordo prima che scattino i tagli automatici previsti dal ‘compromesso’.

Non sono mancate critiche sulla natura di questa nuova commissione come denuncia il membro del Congresso Ron Paul. La “super commissione” andrebbe infatti a privare i rappresentanti eletti di alcuni ruoli fondamentali, impedendo di fatto al Congresso di presentare emendamenti. Ciò permetterebbe alla “super commissione”, attraverso la sua natura straordinaria, la possibilità di far maggior pressione sul Congresso, gestendo più facilmente questioni cruciali per il Paese, come l’inasprimento fiscale e il controllo delle armi.

Nonostane le evidenti difficoltà, sul piano internazionale gli Stati Uniti possono tirare un respiro di sollievo perché alle loro spalle non c’è ancora nessun competior in grado di eguagliarli sul profilo economico, politico e sociale. Il loro peggior nemico potrebbe piuttosto covare al loro interno, soprattutto se la prima economia del mondo non si rimetterà presto in moto. In che modo? L’interrogativo resta, soprattutto a fronte delle scelte che questo accordo ha comportato. Infatti, invece di stimolare la crescita, la decisione di forti tagli alla spesa pubblica e una politica di austerity in un periodo di depressione economica lascia pittuttosto perplessi.

 

La sconfitta di Obama?

Il compromesso che ha previsto tagli al welfare e nessun aumento delle tasse soprattutto per i più ricchi sono una vittoria tutta repubblicana. La polarizzazione del sistema politico nordamericano ha favorito un crescente dissenso da parte dell’opinione pubblica e una conseguente sfiducia verso la propria classe politica. Ma quali erano in realtà le reali alternative di Obama? Alcuni liberal democratici, tra cui Paul Krugman, sostengono che in questa occasione Obama abbia rivelato tutta la debolezza della sua leadership e che abbia accettato di sottostare al ricatto repubblicano. Le alternative di Obama sarebbero state in realtà due: la prima quella di occuparsi dell’innalzamento del tetto del debito a dicembre, insieme alle altre questioni di budget, la seconda invece, accentrare i poteri costituzionali nelle sue mani o perlomeno minacciare di farlo, per evitare i ricatti repubblicani. Ma l’esito finale di questa guerra, iniziata sulla questione del debito, sarà determinato in ultimo nelle prossime elezioni presidenziali quando verrà finalmente palesata l’effettiva rilevanza politica del Tea Party e soprattutto saranno più chiari gli effettivi risultati di questo accordo sull’economia mondiale.

Intanto, è giunta la notizia che l’agenzia di rating Standard and Poor’s ha declassato gli Stati Uniti, con il loro debito, da tripla A a solo AA+: l’accordo bipartisan è stato raggiunto, ma i segnali dell’economia mondiale stentano davvero a essere incoraggianti.

 

*Fabrizia Di Lorenzo laureanda in Scienze internazionali e diplomatiche – Università di Bologna

 

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